A cavallo degli anni Trenta del secolo scorso, Napoli era una delle città più eleganti d’Italia. Il gusto napoletano del vestire, figlio di una miscellanea tra stile inglese e ascendenze francesi e spagnole, era difatti già conosciuto in tutta Italia. Per circa tre decenni, da inizio secolo fino al 1930, il gusto napoletano coincise tuttavia in prevalenza con quello inglese. In barba al clima e alla scomoda rigidità delle forme, i napoletani vestivano come perfetti britannici.
Questo fino a quando un giovane sarto partenopeo, grazie alla sua spiccata intuitività creativa, al suo profondo senso dell’armonia e ad un’abilità manuale impareggiabile nel taglio dei tessuti, riscrisse le regole dell’ingessata eleganza d’Oltremanica.
Vincenzo Attolini, questo il suo nome, era solito ripetere ai suoi estimatori che un buon sarto non è altri che un artigiano il quale crea abiti imperfetti per corpi imperfetti. E le sue non si limitavano ad esser mere congetture. Proprio nell’anno 1930, disegna, taglia e cuce una giacca dalla linea mai vista prima e dalle rifiniture inconsuete. Un capo che durante gli anni Sessanta sarebbe stato ancora considerato alternativo, per poi essere consacrato definitivamente come paradigma di raffinatezza negli anni Novanta.
Una semplicità disarmante capace però di cancellare, di colpo, tutti i rigori dell’eleganza maschile, facendo apparire giurassici i capi d’abbigliamento inglesi. Via le imbottiture, via le spalline, via la fodera. Resta solo l’indispensabile, rendendo la giacca morbida e leggera come una camicia. Talmente destrutturata da potersi piegare in sei, in otto, in dieci. Nessun sarto aveva mai osato tanto negli ultimi cinquant’anni.
È una rivoluzione. Qualcosa di molto simile a quello che accadeva contemporaneamente nell’ambito delle arti figurative in Italia, con l’avvento del Futurismo, e soprattutto l’opera di uno dei suoi più grandi artisti, Umberto Boccioni. Il quale seppe esprimere magistralmente il movimento delle forme e la concretezza della materia, mettendo in discussione l’eccessiva staticità del Cubismo.
È l’invenzione dello stile napoletano e di quel capo che tutto il mondo oggi si limita a chiamare inconsapevolmente “La Giacca”. Ciò cui il giovane Vincenzo dà vita non è unicamente l’opportunità di una nuova praticità, di una leggerezza liberatoria, bensì è un’immagine completamente performata dell’uomo. La sua forbice capace di fenditure quasi taumaturgiche permette, con quei drappeggi ai petti e alle maniche, con l’inconsueta forma delle tasche e quella alquanto ardita del taschino “a barchetta”, il passaggio da un uomo che veste con raffinatezza per etichetta ad uno che, vestendosi, non fa altro che dilettarsi. Potendo finalmente assecondare in tutta libertà sia il proprio gusto vezzoso che la propria spontaneità gestuale.
Inutile dire che, se ne accorgono in tanti. Gli uomini più prestigiosi dell’epoca giungono, giorno dopo giorno, come in un pellegrinaggio, nella sartoria di via Vetriera a Napoli, a cento passi da via Filangieri, dove oggi si trova il raffinato flagship store Cesare Attolini. Scopo, neanche a dirlo, quello di ridisegnare il proprio stile nel segno della morbidezza e della sinuosità delle giacche del maestro Vincenzo. Se Totò, De Sica, Mastroianni e Clark Gable ne sono, dagli anni Cinquanta in poi, i principali ambasciatori nel mondo dello star system internazionale, il Re Vittorio Emanuele III e il celebre Duca di Windsor rappresentano i due casi più eclatanti di come anche le convenzioni aristocratiche dovettero piegarsi alla tentazione di un nuova ed accattivante fascinosità. Non è una leggenda la storia che narra dell’impeccabile Duca, sempre e solo abbigliato fino ad allora con abiti cuciti da sarti inglesi, innamorarsi, passeggiando per la magica Piazzetta di Capri, di una creazione di Vincenzo Attolini.
Al punto di fermare il passante che la indossava per chiedergli di chi ne fosse la paternità.
Proprio come non è leggenda quanto si racconta circa gli interminabili dibattiti fra il principe dei sarti e quello della comicità, il grandissimo Totò, sui temi della pittura e dell’opera lirica. «Mio padre e Totò erano grandi amici! – ricorda Cesare Attolini – Discutevano molto e condividevano vari interessi artistici. Spesso Totò veniva nella sartoria di via Vetriera a trovare mio padre. Gli piaceva vederlo all’opera.
Quei momenti avevano un sapore unico, irripetibile».